La questione della lingua

Con il termine ‘questione della lingua’ si è soliti indicare una storica disputa in ambito letterario per identificare quale lingua utilizzare nei territori della penisola italiana. Tale dibattito iniziò di fatto al principio del 1300 con il trattatto De vulgari eloquentia (in lingua latina) di Dante Alighieri, ebbe una fase acuta agli inizi del 1500 e continuò a fasi alterne fino all’epoca di Alessandro Manzoni con il quale si ebbe una svolta importante. Egli affrontò la questione della lingua in un primo tempo per ragioni artistiche e religiose, e in un secondo tempo per ragioni civili e patriottiche. Le ragioni artistiche e religiose sono connesse alla composizione dei Promessi Sposi. Accingendosi a scrivere il romanzo, Manzoni si pose il problema di un linguaggio che fosse in armonia con la sua poetica, la quale, facendo dell’opera d’arte un mezzo di elevazione morale e di apostolato delle verità cristiane in mezzo al popolo, esigeva l’uso di un linguaggio chiaro, semplice, facile, accessibile a tutti, popolare. Le ragioni civili e patriottiche si imposero in un secondo tempo, quando via via che si realizzava l’unità d’Italia, egli si pose il problema di una lingua comune, unica e unificante che favorisse l’unità spirituale degli Italiani. Ponendosi il problema della lingua, Manzoni faceva un confronto tra gli Italiani e gli altri popoli. Egli notava, per esempio, che mentre nella Spagna, in Francia, in Inghilterra la lingua letteraria era assai vicina a quella parlata, c’era un abisso, invece, in Italia, tra la lingua scritta e quella parlata. Considerando poi la lingua scritta degli Italiani, il Manzoni notava che essa era antiquata, aulica, dotta, retorica, difficile e incomprensibile per gli ignoranti. Lo scrittore italiano era perciò condannato o ad usare una lingua vicina a quella parlata, per essere vivace e moderno, col rischio però di dare un’impronta dialettale alla sua opera e di confinarla nell’ambito della sua regione, oppure ad usare la lingua letteraria della tradizione, col rischio però di vedere la sua opera compresa solo dai dotti di tutte le regioni italiane, ma naturalmente ignorata dal popolo. Occorreva perciò una lingua che fosse nello stesso tempo moderna ed unitaria: per essere moderna, occorreva che fosse una lingua parlata, per essere unitaria occorreva scegliere e avere come modello una particolare lingua parlata. Per il Manzoni la lingua unitaria degli Italiani doveva essere il fiorentino, ma non quello scritto della tradizione letteraria, caro ai puristi, ma quello parlato dalle persone colte di Firenze, nei bisogni della vita pratica. Si trattava di una rivoluzione vera e propria, perché la teoria manzoniana abbatteva finalmente lo steccato che da secoli si era alzato in Italia tra la lingua dei letterati e quella del popolo, e, uniformandosi ai postulati del romanticismo, diffondeva l’uso di una lingua semplice, chiara, spontanea, popolare. Alessandro Manzoni mise in pratica la sua teoria con intelligenza e moderazione, accogliendo nella sua prosa, quando era necessario, ai fini della precisione e della chiarezza, anche i termini non fiorentini, ricavati dalla tradizione culturale italiana e straniera.

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